una ricetta non è solo una ricetta

teglia di verdure

Mentre preparavo ‘sta -semplice- teglia di verdure pensavo che sovente, quannu ti spiu ‘na ricetta, trascrivo il processo della preparazione con le diverse successioni, senza cuntariti tutte cose. Do per scontato che tu abbia un minimo di conoscenze culinarie, in base alle quali sai giostrarti durante le diverse fasi. In definitiva, ti consegno una spiegazione carente, omettendo cose, date per sottintese e, se non hai dimestichezza ai fornelli, potresti avere qualche problema. Sappi però che, per tutte le cose non dette per esteso, rimandate o implicite, io sugnu sempre cca, disponibile a cuntariti tutto quanto ti occorre per preparare un piatto, la cui ricetta – o presunta tale- sia  contenuta all’interno di questo diario.

Ora che mi misi l’anima in pace, auto assolvendomi dal peccato di imperfezione, ti pozzu cuntari che mi vinni n’autra pinsata, mentre affettavo le verdure.

Se vabbè -mi dissi parrannu, tra me e me- se ci cuntu la ricetta di ‘sta teglia di verdure, minimo minimo, me la tira in testa, picchì chista che è ‘na ricetta?

Ebbene, sai chi ti ricu?

Una ricetta non è solo una ricetta
…Che dissi, una minchiata?

Nzù! Picchì, se talii bonu e ci fai caso, alla fin fine, tutti quelli che parramu di cibo, proviamo a far vivere un rituale, spingiamo questa moda legata al cibo sulla passerella inondata di luci, manco fussi ‘na sfilata, coinvolgendoti come in un’esperienza sensoriale.  Come ti dissi l’autru jornu mangiare non è un bisogno alimentare, oramà è una rappresentazione sociale. E’ teatro, né più e né meno. Sceneggiatori, attori, scenografie e palcoscenico entrano in scena, interpretando un ricordo, proponendo un sapore che lega come un filo rosso e poi s’intreccia coi pensieri chiusi nei cassetti della memoria.
Quannnu dicidi di preparare quel piatto che ti solletica la vista accade una magarìa che profuma, che solletica le narici come un incanto. E quando meno te l’aspetti il dejavu arriva a timpulata, ‘u ciavuru s’insinua nella testa e cadi a piè pari dentro il fosso dei ricordi.

teglia di verdure_saturazione

Non mi resta da cuntarti i passaggi che si susseguono per realizzare questa bella teglia di verdure. Amunì, pigghia un pizzinu.
per 6 persone
una teglia in ceramica rettangolare 29×25

1 Kg di patate sbucciate
500 g di zucchine
2 scalogni o una cipolla bianca
3 pomodori cuore di bue
una manciata di olive nere snocciolate
4 rametti di rosmarino
olio extra vergine d’oliva
sale
pepe

Lava le patate, affettale con un robot o con una mandolina realizzando fette di 4 mm di spessore, mettile a bagno in acqua fredda per circa mezz’ora poi sciacquale e asciugale. Ponile dentro una ciotola capiente e condiscile con sale, pepe e olio; mescola con le mani per assicurarti che siano ben condite. Distribuisci le rondelle di patata “di taglio” dentro la teglia, unta leggermente. Per non impazzire usa una carota posta ortogonalmente alle fette, in modo da mantenere in forma le rondelle, ti consiglio di lasciarla durante la cottura.
Inforna in forno caldo, portato a una temperatura di 190°C , cuoci mezz’ora e nel frattempo prepara le altre verdure.
Affetta le zucchine a 4 mm dopo averle lavate, asciugate e spuntate; condiscile dentro la solita ciotola nel medesimo modo descritto in precedenza. Tira fuori la teglia e senza bruciarti –ppì carità- disponi le zucchine in sequenza. Mantieni la forma aiutandoti con la carota. Affetta i pomodori, condiscili e, se il loro diametro dovesse essere troppo grande per l’ordine della teglia, tagliali a metà e disponili di taglio sempre dopo averli conditi nella ciotola con olio, sale e pepe. Affetta lo scalogno e inseriscilo tra i pomodori e le patate, decora con il rosmarino e le olive; inforna ancora per circa 15, 20 minuti o fino a quando pensi che il livello di cottura delle verdure sia di tuo gradimento. Io preferisco sentire sotto i denti la consistenza delle zucchine e anche dei pomodori, proseguire la cottura significa, per me, avere una consistenza troppo molle. Ma come si dice? Gusti sono!

 

 

espliciti sapori

Cosa vuol dire, per te, avere il senso della cucina? Mangiare per innamorarsi, dico io.

Innamorarsi di un ingrediente mangiato con le mani, crudo magari, prima di passare attraverso le diverse manipolazioni: nettare, affettare, cuocere e infine portare in tavola, il luogo dove si gioca la “partita”. Il luogo nel quale le cose assumono un ruolo netto, gerarchico, strutturale, architettonico, teatrale direi. Non è un bisogno alimentare, non lo è più. E’ un’educazione sentimentale, un gioco delle parti, uno scambio geografico, scenografico e culturale.

Io, in questo contesto, interpreto un personaggio, me stessa. Decido quando allacciarmi il grembiule sui fianchi e cosa preparare per farti percepire il ciavuru e ‘u sapuri, anche a 1300 km di distanza. Alcune volte riesco, accostando sensazioni che reputo bellissime a diffondere la mia stessa percezione procurandoti il desiderio di riprodurre la ricetta. Quello è un grande successo che culmina nel momento stesso in cui, al primo assaggio, pensi solo cose belle. In ultimo, in questa rappresentazione, sono soggetta al tuo giudizio e alle tue critiche, è inevitabile; fa parte del gioco.

Qui trovi testi culinari che raccontano, attraverso parole e immagini, una selezione di “cose, che cose non sono” e della loro infinita combinazione. Provo a superare il confine del piatto, andando oltre, cuntandoti di come ho individuato questa o quella ricetta e dove ho reperito gli ingredienti. Ti porto, mano manuzza, nei mercati di Palermo, tra le viuzze inturciniate della città araba attraversando quella barocca anche con il naso all’insù, picchì nutro l’esigenza di condurti in questo bellissimo luogo che mi ospita, seguendo un’organizzazione mentale, affondando, a piè pari, nel mio percorso di crescita personale.

Tutto questo panegirico per dire una cosa, al di là dei discorsi che ho sentito e letto in questi giorni sugli influencer, credo che se fai un lavoro che viene valutato come un buon lavoro, questo debba essere rispettato, seguendo determinati livelli di pertinenza. Attenendosi a ciò che è significativo tralasciando ciò che non lo è, individuando un ruolo in questo complesso sistema, dinamico e turbolento legato al mondo del cibo, magari davanti a un piatto di spaghetti cozze e vongole e un calice di vino bianco, bello freddo, che scende nel cannarozzo, cantando.

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un dolce alla salute

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ho trovato un dolcino senza glutine e senza zucchero, a base di sola frutta, buono da fare impallidire puru ammia ca sugnu abbronzata. Il libro dal quale ho desunto la ricetta è stato scritto dal mio amico Marco Orsini, ambasciatore Magimix. Trovi tutti i riferimenti qui.
Se affondi il naso tra quelle pagine resterai affascinato da 50 ricette semplici che ti appassioneranno. Con Duo Plus XL Magimix io ho l’opportunità di organizzare un pasto completo in modo sano.
La ricetta è di una semplicità disarmante, non ci vuole chissà quale laurea o master chef di turno.
Mi credi? Leggi qua:
per 4 piccoli aspic ti servono due mele gialle
200 g di lamponi freschi
un cucchiaino di agar agar in polvere
qualche foglia di menta
Lava e asciuga le mele, tagliale a metà e inseriscile nella bocca di carico del Juice Expert. Accendi la macchina ed estrai il succo dentro una casseruola; metti sul fuoco con l’agar agar mescola e porta a bollore. Suddividi i lamponi dentro 4 stampini, versa il succo di mela caldo e fai raffreddare prima di mettere in frigo a fare rassodare per almeno un’ora prima di servire.
Estrai gli aspic con delicatezza dai loro alloggiamenti, disponi su piatti singoli decorando, se ti piace con lamponi freschi e foglie di menta.

Poi mi cunti.

aspic lamponi e succo di mela rescaspic_res 2

triscele

Che dicevo? AH si, mi ponevo il dilemma di Bufalino. Quante Sicilie? Lui diceva che sono tante, addirittura cento. Un numero che, secondo me, non vuol dire niente, matematicamente parlando; un titolo forse, da dare a un bellissimo libro.
Nondimeno, sono qua, in questa moltitudine di aspetti, di facce, di magarie in un palinsesto straordinario; l’isola nell’isola, abbacinata da una luce esagerata, fortissima. Una perla d’acqua salata al centro del mediterraneo, nuda, spontanea, vera. Modellata dai mari, dal vento, dalla pioggia, dal sole, dagli stranieri e dal languore di noi siciliani.
Io innamorata sono di questo posto, esattamente come lo sono tutti quelli che, nati qui, sono andati via, fuori, lontano; sono quelli che poi tornano sempre per ritrovare cose, luoghi, storie, simboli e persone o, addirittura, se stessi.
Di simboli da queste parti ne puoi scovare a bizzeffe -ancora alla ricerca di un numero? Uno fra tanti è il triscele che a sua volta contiene in esso diversi significati compreso “la potenza del numero tre”. Gli è stato attribuito anche un valore geografico, almeno qui da noi, associandolo alla Trinacria.
Lo conosci? Talè, è bellissimo! Un vortice a tre spirali che dal centro, sotto la faccia della Gorgone, s’impirugghiano su loro stesse; se lo fanno da destra verso sinistra, come viene rappresentato nella bannera della Sicilia, viene a significare il catamiarsi delle energie, dall’interno verso l’esterno, la rivelazione di cose belle, positive, forti. Se invece lo fanno da sinistra verso destra, trattasi di cose tinte, la calata nel regno degli inferi. Matri mia, che paura!
Delle cose tinte non vogghiu parrari, piccarità. Parramu, invece, di cose belle come questo Triscele di Purpiceddu

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Triscele di polpo arrostisto e patate viola
per due cristiani:
un polpo da mezzo chilo decongelato
300 g di patate viola o quelle che ti piacciono di più
aglio se ti piace
rosmarino
timo
sale
pepe
olio extra vergine d’oliva

Pulisci il polpo, togli gli occhi, il becco e pulisci la testa al suo interno. Lavalo sotto l’acqua corrente e calalo per tre volte in una pentola con l’acqua bollente, fallo cuocere mezz’ora, spegni il fuoco e fai raffreddare nella sua acqua di cottura. Occorreranno delle ore, niente ci fa, ne vale la pena.nel frattempo pela le patate tagliale a cubetti nichi, se hai il robot multifunzione Magimix usa l’accessorio “cubetti & bastoncini” otterrai cubetti perfetti in un secondo da un cm.
mettile in una ciotola, condiscile con il sale, il pepe e le erbe aromatiche. Mescola e disponi, in un solo strato, su una teglia foderata con carta forno. Inforna a 200°C per circa 40 minuti o fino a quando le patate saranno cotte.

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Affetta i tentacoli del polpo, lasciandoli interi e affetta il corpo e la testa. Arroventa una piastra in ghisa e arrostisci il polpo, pochi minuti per ogni lato, regala quella crosticina dorata alla carne.
Impiatta mettendo, al centro del piatto, un cumulo di patate e parte del corpo del polpo, finisci, adagiando sopra i tentacoli, a guisa di un vortice, se ti piace.
E dopo mi cunti.

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quante Sicilie?

 

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L’Isola nella quale sono nata è di una vastità disarmante. Se viaggi tutto intorno o ci passi attraverso ti chiedi, istintivamente, “quante Sicilie ci sono?” Uh!
Se vivi sulla costa, comu a mia, ti pare che senza mare non puoi campare; il clima è temperato, molto caldo a volte, t’arricrii comu si fussi sempre in vacanza. L’entroterra invece cangia assai: tu che nascisti ddà, in uno dei borghi siculi, abbarbicati  sulle montagne che si innevano durante l’inverno, potresti anche non avere mai visto il mare, dico per assurdo.
Attia che leggi, se mai ti venisse in mente di approdare sull’Isola, in qualunque aeroporto, in una bella giornata di sole, magari a primavera, prova a tagghiari  il territorio percorrendo la Palermo Catania. Passeresti su per i monti Erei che non sono tra i più alti ma sono sicura al 200% che resteresti alluccutu. Non si può capire lo spettacolo al quale s’assiste passandoci attraverso, è commovente. Intanto, appena lassi la costa e t’addentri, ti pare che stai lassannu la vita e ti chiedi: cosa succede adesso? Cominci ad acchianari, dapprima leggermente poi sempre più in alto e la pianura diventa collina e il verde pennellato sui versanti è meraviglioso. Bello, veramente.
Io, che sono ambasciatrice Emile Henry per la Sicilia, viaggio tutt’attorno o nel mezzo dell’Isola e devo dire che questa terra mi sorprende sempre.

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250 g di semola di rimacinato
350 g di farina di grano tenero di tipo 2
un cucchiaio d’olio extra vergine d’oliva
10 g di lievito di birra fresco
13 g di sale
350 ml di acqua circa
30 ml di sciroppo d’acero
semi misti la finitura; semi di papavero, semi di zucca, semi di lino, semi di sesamo

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mescola le farine con il lievito sbriciolato, l’olio e lo sciroppo d’acero. Comincia a impastare aggiungendo l’acqua poco per volta e il sale.  Lavora l’impasto fino a ottenere un composto liscio e omogeneo; realizza una palla che porrai a lievitare dentro una ciotola leggermente infarinata. Copri con un canovaccio pulito e poni dentro il forno spento con la luce accesa per circa un’ora o fino a quando raddoppierà il suo volume iniziale.
Imburra lo stampo da pane in cassetta, cospargi di farina eliminando quella in eccesso e metti da parte. Recupera l’impasto, lavoralo un po’ sulla spianatoia. Versa i semi sul piano di lavoro, bagnati le mani, passale sull’impasto e poi rotolalo sui semi premendo leggermente per farli aderire.  Adagia il composto dentro lo stampo facendo una leggera pressione per adattarlo alle pareti, chiudi col coperchio e fai lievitare per circa 50 minuti. Accendi il forno a 230°C, cuoci il pane per circa 45 minuti. Sforna e fai raffreddare qualche minuto dentro lo stampo e poi sformalo delicatamente. Fai raffreddare completamente prima di affettarlo.

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Mi sono chiesta in questi (quasi) 10 anni di blog, quanto io abbia contribuito, nel mio piccolo, all’esplosione di questo fenomeno dilagante legato al cibo e quanto io sia stata chiara e esaustiva nel cuntariti  ‘na ricetta. Mi piacerebbe conoscere la tua opinione al riguardo; se hai tempo e voglia.
Hai un’idea dell’empatia che si genera, come una magarìa, quando penso a ciò che desidero proporti? Mizzica, dovresti vedermi al mercato, mentre scelgo gli ingredienti da intrecciare insieme in cucina per concretizzare il mio desiderio; mi dispiace infinitamente però, non poterti regalare il profumo quindi provo a restituirti, con la foto, il bisogno effimero di preparare ‘na cosuzza.
Vogghiu annari oltre, oltre l’evidenza, oltre il piatto, oltre un’esigenza, lasciandoti l’identità di un racconto e di un’immagine. Il mio busillisi è sapere quanto io riesca nell’intento.

Intanto, mentre ci rifletti, rispunnimi a ‘st’autra dumanna: che cos’è un dolcino?
Facile eh?

Una cosa buona a cui pensare, un inizio per “una buona bella giornata”, un buon motivo per pigghiare un pizzino e segnarti ‘sta ricetta.

Plumcake all’arancia
330 g di farina
8 g di lievito
un pizzico di sale
175 g di burro morbido
3 uova
200 g di zucchero di canna
la scorza di una grossa arancia grattugiata
150 ml di succo d’arancia

plum cake arancia_stampo

per la glasssa:
100 g di zucchero a velo
20 ml di succo d’arancia
una manciata di pistacchi tritati
riscalda il forno a 180°C, imburra uno stampo da plumcake e infarinalo, eliminando la farina in eccesso. In una ciotola mescola la farina, il sale e il lievito. Sbatti il burro con lo zucchero per un paio di minuti, aggiungi le uova, uno alla volta aspettando che il precedente venga inglobato dall’impasto prima di aggiungere il successivo. Aggiungi il mix di farina, la scorza d’arancia e il succo per fluidificare l’impasto. Versa nello stampo e inforna per circa 70 minuti poi copri la torta con un foglio di alluminio e cuoci altri 10 minuti. Fai sempre la prova stecchino prima di sfornare. Fai raffreddare dentro lo stampo per 10 minuti e poi capovolgi il dolce su una griglia per raffreddarlo completamente.
Prepara la glassa mescolando allo zucchero a velo il succo. Fai riposare qualche minuto e poi versalo sul plumcake, decora con la granella di pistacchio.

plum cake arancia_glassa

plum cake arancia_mano

plum cake arancia_fetta

riccioli d’octopus

polpo sv_ jpg_resizeHo letto che il polpo possiede tre cuori e che riesce a cambiare colore per mimetizzarsi o per entrare in contatto con i suoi simili. Tre cuori… ‘sssageratisti purpiceddi; noi umani facciamo fatica a tenerne in vita uno, pensa pensa tre. Troppo faticoso.
A mimetizzarci invece siamo bravi; opportunisti o mezzi uomini, o quaquaraqua, siamo capaci di sembrare ciò che non siamo e lo facciamo anche molto bene. Ah! L’essere umano, senza distinzione di sesso, è presente a se stesso, è garante del proprio atteggiamento, è preparato a concretizzare gesti e condotta per perseguire i propri fini. Così è.
Io, per esempio, accattai ‘stu purpiceddu per farmi ‘n’insalata tiepida picchì, cu st’accenno di primavera, affacciaru come i babbaluci i “lapini” carrichi di asparagi selvatici. Io ne vado letteralmente matta cunzati nella frittata ma stavolta li ho usati come base per l’anzalata di purpiceddu e code di scampi. Quindi c’è poco da studiare e sfirniciarti cu ‘na ricetta, è un piatticeddu talmente una fissaria da fare, che ti veni ‘i ridiri; assettati che ti cuntu accussì ti fai ‘na risata.

Per due cristiani:
un purpiceddu di menzo chilo
due mazzetti di asparagi selvatici (per ora costano un occhio della testa, assai assai)
una manciata di code di scampi
un mazzetto di prezzemolo
uno spicchio d’aglio
olio extra vergine d’oliva
sale
peperoncino

Comincia col pulire il polpo, togli gli occhi, il becco e pulisci la testa al suo interno. Lavalo sotto l’acqua corrente e calalo per tre volte in una pentola con l’acqua bollente, fallo cuocere mezz’ora, spegni il fuoco e fai raffreddare nella sua acqua di cottura. ti ci vorranno delle ore, ma ne vale la pena. Togli la parte dura dagli asparagi e lessali in acqua bollente salata; scolali, suddividili in due ciotole e regalaci un filo d’olio crudo.
In una padella scalda un cucchiaino d’olio con l’aglio schiacciato, scalda e fai dorare con il peperoncino, aggiungi le code di scampi e cuoci pochi istanti, ripassa anche il polpo tagliato a pezzetti e dividi equamente sopra gli asparagi dopo aver eliminato l’aglio. Cospargi con il prezzemolo tritato e poi mi cunti.


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“La vita è uguale a una scatola di cioccolatini…

…non sai quello che ti capita”

ragiuni avi Forrest Gump, ma su questi quassotto perone, posso dirti tutto, se vuoi.

La ricetta l’ho vista qui; l’ho adattata apportando la conversione delle misure e aggiunto ‘n’anticchiedda di panna, o latte se preferisci; ammia il biscotto mi parsi duro, per i miei gusti, tu fai come ti pare, ‘o solito.

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Chi siamo noi per dire se martedì è grasso o magro? Si putissi offinniri, non è una cosa bella eh?

Di certo con un solo quadrozzo di questi cioccolatini  grasso ci diventa, cu ciù dici? Io no! Addio.

per una teglia da 20*25
30 pezzi
per il biscotto:
150 g di farina
1/2 cucchiaino di lievito
1/4 di cucchiaino di bicarbonato
1/4 di cucchiaino di sale
80 g di burro fuso
150 g di zucchero di canna
un uovo grande
2 cucchiaini di estratto di vaniglia
80 g di burro di arachidi
20 ml di panna o latte se preferisci, equivalgono a 2 cucchiai
per la copertura:
200 g di burro di arachidi
130 g di cioccolato fondente
per la finitura:
zuccherini colorati o codette

riscalda il forno a 180°C e imburra una teglia, cospargi di farina ed elimina quella in eccesso. Mescola gli ingredienti secchi in una ciotola, vale a dire la farina, il lievito, il bicarbonato e il sale. In un’altra sbatti il burro con lo zucchero, l’uovo e la vaniglia. Aggiungi gli ingredienti secchi e fluidifica con la panna. Versa nella teglia e inforna per circa 15 minuti o fino a quando, inserendo uno stecchino all’interno dell’impasto, questo ne uscirà asciutto e pulito. Tira fuori la teglia dal forno, fai raffreddare qualche minuto, poi sforma il biscotto e fai raffreddare completamente su una gratella per dolci, a ‘sto punto prepara la copertura. Trita il cioccolato mettilo dentro un contenitore e scioglilo a bagnomaria insieme con il burro di arachidi. Fai intiepidire e poi versa sul biscotto. Cospargi, se vuoi con gli zuccherini colorati che fa tanto carnevale e fai indurire in frigo. Taglia a quadrozzi e servi.

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tra me e me

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dice che è carnevale e ogni sgherzo vale. Giusto!
Da tanto non preparo una ricetta carnevalesca, picchì, till’ha diri, mi siddìa di moriri annare appresso appresso alle fasi obbligate dal momento quindi spesso mi defilo, glisso bellamente ma… c’è un ma. Il mio amico Joe Prestia mi chiese espressamente una ricetta quest’anno! Lui vive a Sciacca, il comune siciliano in cui si svolge lo storico carnevale; conduttore della trasmissione radiofonica “L’Italia del mattino” su radio studio 5, mi ospita ogni sabato per la rubrica di cucina. Ora, dico io, una ricettuzza calda calda di fritto non la dovevo fare apposta ppè lui? ‘Ncà!
Questa ricetta è desunta dal numero di febbraio di ‘st’annu della mia rivista preferita, la magica Sale & Pepe, modificata ‘n’anticchiedda. 


Chiacchiere ai fiori doppi arancia e cannella.

per la pasta:
250 g di farina di tipo 1
2 uova
1 cucchiaio di succo d’arancia
30 g di zucchero a velo
mezzo cucchiaino da caffè di cannella in polvere

per la crema:
100 g di mascarpone
un uovo
la scorza grattugiata di mezz’arancia
30 g di zucchero a velo

olio di semi per friggere
zucchero a velo per guarnire

comincia preparando l’impasto mescolando la farina con lo zucchero e la cannella. A parte sbatti le uova con il succo d’arancia e poi aggiungili alla farina. Amalgama con una forchetta e poi impasta sulla spianatoia. Realizza una palla liscia e mettila a riposare per mezz’ora circa, coperta da un panno pulito.

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preleva una parte di impasto e passalo nella macchina per stendere la pasta a partire dal primo spessore fino al penultimo. Se l’impasto dovesse risultare troppo umido spolvera con della farina di appoggio. Dalle strisce ricava dei fiori, con due coppapasta a forma di fiore di diverso diametro. Sovrapponi il ciuriddu piccolo su quello grande con una leggera pressione.

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Friggi in abbondante olio caldo ponendo il fiore capovolto dentro l’olio bollente, giralo per cuocerlo anche dall’altro lato. Fai assorbire l’olio in eccesso su un foglio di carta per fritti.
Poi prepara la crema montando l’albume, mettilo da parte. A parte monta il tuorlo con lo zucchero e la scorza d’arancia. Incorpora anche il mascarpone e infine l’albume, delicatamente dal basso verso l’alto. Metti in frigo fino al momento di servire.
Porta in tavola spolverando con lo zucchero a velo e la crema a parte da aggiungere al centro del fiore.

 

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confortami con le mele

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Le mele si, ma non dimenticare le arance. Almeno in questo blog, lo sono, importanti.

A scorzameravigliosadarancia, a me.

Crostata di mele e marmellata di arance

300 g di farina 0
70 g di strutto
80 g di burro
un uovo
qualche goccia di acqua fredda
150 g di zucchero di canna Zefiro
un cucchiaino di estratto di vaniglia
350 g di marmellata di arance
2 mele golden
cannella
zucchero di canna
20 g di burro per la finitura

impasta gli ingredienti della frolla, realizza una palla e avvolgila nella pellicola per il consueto riposo in frigo; almeno un’ora. Accendi il forno a 180°C.
Spolvera un po’ di farina sulla spianatoia e stendi la maggior parte dell’impasto con un matterello, il resto rimettilo in frigo. Fodera una tortiera di 26 cm di diametro dai bordi alti, precedentemente imburrata e infarinata. Bucherella il fondo dell’impasto con i rebbi di una forchetta e distribuisci la marmellata. Sbuccia le mele, tagliale a quarti, elimina i semi e la parte interna del torsolo quindi affetta i quarti con una mandolina. Adagia le fettine di mela sulla marmellata, distribuisci il burro a fiocchetti e il mix di zucchero e cannella.
Stendi la parte di impasto avanzata; con un rotella realizza delle strisce che userai, incrociandole, come grata sulle mele. Richiudi il bordo della crostata sulla griglia, sigillandola.
Inforna per circa 35-40 minuti o fino a quando la crostata sarà cotta. Dopo la cottura, se vuoi, spolvera dello zucchero a velo.

 

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